mercoledì 1 dicembre 2010

La liricità del pessimismo in Cioran

Parlare di Cioran significa parlare di una scoperta personale.
La scoperta di uno stile, di un pensiero lucidamente arguto, mai scontato, estremo fino all'insostenibile.
L'incontro, del tutto casuale, è avvenuto in una libreria, dove in evidenza c'era un piccolo libro dell'Adelphi "Storia e utopia": un titolo che sembrava fatto apposta per i miei interessi di quel periodo.
Leggo qualche pagina: trovo un mondo riassunto in poche righe; dei bagliori improvvisi, illuminanti, inaspettati.
Mi incuriosiscono anche i titoli degli altri libri, indicati nel risvolto di copertina: leggo "Il Funesto demiurgo", "Sillogismi di amarezza".
Se un libro può indicare un talento, tre incominciano a rilevare una genialità.
Mi affascina ma mi lascia anche un po' perplesso.
Cioran è disarmante, un pessimista assoluto, senza compromessi, senza via di uscita.
La sensazione è quella di mancanza d'aria, di respiro.
Ad un certo punto leggo "Un apolide metafisico" (neanche a dirlo edizione Adelphi) delle conversazioni-interviste rilasciate nel tempo.
Emerge una figura diversa dal Cioran pessimista: un uomo socievole, formidabile conversatore, che racconta piacevoli aneddoti, ricco di ironia.
Consiglio il mio percorso-casuale- di lettura a tutti quelli che sono incuriositi da questo autore e che non hanno ancora letto nulla: conoscere l'uomo Cioran dopo aver conosciuto lo scrittore Cioran è un'autentica rivelazione.
Recentemente ho visto un video su YouTube (c'è anche la versione sottotitolata in italiano) che si intitola Un secolo di scrittori, diviso in quattro parti.
Un modo diverso per conoscere l'uomo Cioran e trovare anche nelle espressioni facciali la profondità del suo pensiero.
"Mi sento l'essere  più terribile che sia mai esistito nella storia, una bestia apocalittica traboccante di fiamme e di tenebre, di slanci e di disperazione.
Sono una belva dal sorriso grottesco (...) attratta da niente e da tutto (...).
In me si estingue ogni scintilla per rinascere tuono e lampo".
Così si descrive ferocemente in "Al culmine della disperazione", un autentico capolavoro scritto nella sua lingua madre cioè rumena (che poi abbandonerà per il francese) all'età incredibile di 22 anni durante delle notti insonni.
Molti sostengono che il suo libro più completo, un concentrato del suo pensiero, è Sommario di decomposizione...
Per quanto mi riguarda, preferisco il primo: lo sento più vibrante, meno ammiccante.
Del resto, sempre nel primo libro (a pag.30, edizione Biblioteca Adelphi), egli stesso scrive: "le pagine più ispirate, da cui promana un lirismo assoluto, in cui si è preda a un'esaltazione, a un'ebbrezza totale dell'essere, non si posso scrivere  se non in una tensione nervosa tale da rendere illusorio ogni ritorno all'equilibrio".
Lo stile di Cioran è scultoreo, magnificamente lirico: si avverte il tormento, la sofferenza, la disperazione, la disillusione.
È un uomo che soffre perchè ha compreso il nulla, si è affacciato sul baratro, ha sfiorato il vuoto e ne è sopravvissuto con un sorriso beffardo.
Nel video, a un certo punto, l'intervistatore chiede se il suo è un pensiero nichilista.
Cioran risponde che non si considerava nichilista; piuttosto il suo pensiero era come dare degli schiaffi.
Si può forse considerare un atto nichilista, lo schiaffo?
Non è piuttosto un'atto "positivo" cioè attivo, provocatorio?
Il suo è appunto uno schiaffo alle illusioni della vita, la coscienza lucida che ogni azione umana si frantuma miseramente di fronte alla morte e all'impossibilità di individuarne uno scopo.

venerdì 22 ottobre 2010

Il liberalismo estremo di John Stuart Mill

Ho dedicato questa estate alla lettura di uno di quei libri a cui l'etichetta di classico sembra incollata in maniera indelebile: Sulla libertà di J.S. Mill, Bompiani testi a fronte, Milano, 2000.
Leggo, prima di sprofondare nel testo, la breve biografia di Mill e...sorpresa!: Mill era un genio.
Esagero?
A tre anni imparò il greco, il latino a otto.
A sette anni legge l'intera opera di Erodoto, i sei dialoghi di Platone e poi Aristotele, Platone e compagnia bella.
A tredici anni legge i Principles di Ricardo e ne discute direttamente con l'interessato, visto che è anche un amico del padre.
Padre che, come normale che sia quando si è al cospetto di un genio precoce, è molto attento all'educazione del figlio e ne prepara rigorosamente la strada verso l'eternità.
Anche se ottenuta poi passando attraverso una "profonda depressione".
A leggere le persone che ha incontrato gira la testa: Bentham, Jean-Baptiste Say, Saint- Simon.
Padrino, trovo su wikipedia, addirittura di Bertrand Russell.
Comte e Tocqueville tra le sue letture e scusate se è poco.

La lettura del testo non si può considerare scorrevole, naturalmente bisogna contestualizzare il linguaggio al periodo storico.
Dopo le prime pagine però ci si immerge abbastanza agevolmente nella lettura: l'argomento è interessante e, anche se oggi molte tesi sembrano scontate, in realtà si tratta di concetti sempre validi.
Il testo a fronte è in lingua originale, inglese, ma, dopo una prova iniziale, preferisco abbandonarlo per la volgare versione in italiano.
Meglio concentrarsi sull'originalità del pensiero.

La sensazione iniziale è perfettamente confermata da quella finale: questo genio precoce aveva così a cuore la libertà da risultarne un fanatico sostenitore.
Per Mill la discussione libera delle idee è sempre un vantaggio sia quando si riesca a dimostrare che la teoria sostenuta sia universalmente corretta, sia quando ne sia dimostrata la non verità o l'erroneità.
Dice infatti Mill che se è vera allora evidentemente è giusto e socialmente auspicabile che quell'idea possa essere espressa (e profondamente dannoso non poterla esprimere) ma più quell'idea è malsana ed errata più è auspicabile permetterne l'espressione perchè per contrasto e confronto l'idea giusta avrà l'occasione di emergere con la forza della sua validità intrinseca.

Ciò presume che la giustizia e la verità alla fine prevalgano sempre, concetto che spesso tipico ottocentesco, oggi spesso messo in discussione.
Evidentemente J.S.Mill non aveva fatto i conti con con l'influenzabilità delle opinioni, in primis attraverso i media. Ad affermarsi, spesso, non è un'idea "necessariamente" giusta ma solo quella più facilmente recepibile e più spendibile sul mercato delle relazioni.
Per non parlare delle distorsioni e degli estremismi che nascono da alcune idee palesemente "non giuste" o "irragionevoli", difficilmente o parzialmente sostenibili e, quando lo sono, sempre col timore di incorrere in un processo autodistruttivo.
In particolare mi riferisco alla tollerabilità dell'intollerante.
Qui l'estremismo di Mill raggiunge il suo apice: le idee, anche le più orripilanti, vanno espresse sempre, qualsiasi sia il loro contenuto; darne un giudizio e proibirle in base a questo giudizio, pur ragionevolmente condivisibile, induce più facilmente all'errore che ad un vantaggio.
"Tutti gli errori che può commettere (l'uomo) ignorando consigli e ammonimenti saranno un male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi costringere da altri a fare ciò che essi ritengono il suo bene".
Diversamente le azioni conseguenti ad alcune idee trovano il limite del non recare danno agli altri.
Insomma il classico principio del "non fare agli altri quello che non vuoi venga fatto a te" o "la libertà degli altri finisce dove inizia quella degli altri" di gandhiana memoria.

Interessante e attuale anche il concetto della pericolosità dell'unaminità delle opinioni messa in relazione con l'individualità, principio base e distintivo dell'uomo.
Non si è individui se non si ha originalità e diversità di opinioni.
Se, nei confronti di qualsiasi idea -anche la più giusta- c'è solo uniformità e consenso è molto probabile che qualcosa si è inceppato nel meccanismo dell'essere sia individui e che animali sociali.

Un'idea profondamente giusta e corretta deve avere oppositori, non averli la indebolisce invece di rafforzarla.
La lezione di Mill è semplice, netta, assolutamente condivisibile.

Una lettura che mette in discussione anche i più convinti sostenitori della libertà, che imparano a dover far i conti con una delle più forti contraddizioni di questo concetto: la libertà è sicuramente uno dei beni più importanti per l'uomo e pertanto non si baratta con la giustizia o con la propria assoluta convinzione.

Una lezione che trasuda tolleranza e rispetto per gli altri e ricorda, in molti aspetti, il pensiero di Tocqueville e Voltaire.
In questo blog mi occuperò di liberi pensatori: poteva forse mancare il Classico per eccellenza?

sabato 16 ottobre 2010

Cosa (non) sarà questo blog

L'obiettivo è chiaro già dal titolo: analizzo criticamente le mie letture, libri e riviste, con il preciso intento di farne archivio elettronico e non più cartaceo.

In mezzo ci saranno alcune osservazioni stimolate da eventi o notizie quotidiane di vita vissuta.

Quale è la novità?
Per me nessuna, visto che scrivo praticamente da ventisei anni una sorta di diario personale con queste caratteristiche, tranne appunto che era e in parte rimarrà ancora cartaceo.
Almeno per quanto riguarda il mio fedele moleskine.
Che ha un vantaggio sul pc: è sempre a disposizione, non devo aspettare avvii, boot, strap, gulp di nessun tipo.
Prendo la penna e scrivo: semplice, rapido e comodo.
Ovunque mi trovi, anche- come è successo realmente- in mezzo al traffico o fermo al semaforo.

Eppure...si eppure, come tutti sanno, i vantaggi di scrivere su un foglio elettronico sono così innumerevoli che sembra inutile perfino elencarli.
Mi sembra anzi un pò patetico farne il confronto, quasi una strenua difesa dell'indifendibile dal sapore nostalgico.
Eppure la soluzione è banale: come per i media tradizionali e internet, anche la contrapposizione tra carta e dati elettronici può essere considerata una falsa contrapposizione.

Ancora più chiaro è cosa non ci sarà in questo blog: niente riferimenti personali, nessun commento a fatti privati, se non necessari ad affrontare un argomento specifico.

Un diario anomalo, uno zibaldone insomma.

venerdì 15 ottobre 2010

Un blog...nonostante i blog

Si inizia.
Dopo un timido tentativo fatto anni fa- forse un millennio- riprovo a scrivere un blog.
Un aspetto inquietante mi aveva bloccato allora e, ancora oggi, rimane un elemento frenante: perchè far sapere a tutti ciò che penso e sono? Perchè dovrebbero essere interessati a quello che penso e sono?
Probabilmente una timidezza preventiva, forse una sorta di paura del "lettore bianco", contrapposta al terrore della "pagina bianca".
Con una convinzione di fondo: i blogger vogliono essere o sono degli egocentrici repressi e, a volte, nemmeno tanto repressi.
Oggi conta apparire...ed oggi si può apparire ovunque.
Per certi versi fa parte dell'essere umano o dell'essere sociali: esistiamo in quanto individui nelle relazioni con gli altri, siamo l'uno e i centomila e, detto per inciso, pessimisticamente i "nessuno".

Una rivoluzione, ormai nemmeno più all'orizzonte, ha sconvolto tutto ciò.
Parlo ovviamente di internet, almeno- detto mestamente- per i paesi cosiddetti civilizzati.
I mass-media esistono più o meno da sessant'anni; io e quelli come me siamo, almeno nell'origine, la tvradiocinematelefonogenerazione del passato e i neo webbizzati del futuro prossimo.
I nuovi nati, che qualcuno preferisce definire "nativi digitali", imparano a convivere con i nuovi mezzi allo stesso modo con cui convivono con le forchette e con i piatti: esistono, sono indispensabili e quotidiani ma così scontati da non essere degni di attenzione.
La maggior parte di essi, forse anche a causa della loro "trascurabile" età, non si chiede se è meglio essere su Facebook o su Twitter o se creare un blog o un sito web.
Lo fanno e basta, se ne hanno voglia. Tutto, indiscriminatamente.
Vittime inconsapevoli di una generazione di viziati dell'abbondanza.
Erano "importanti" soggetti passivi di morbose attenzioni da piccoli, sono adesso egocentrici soggetti attivi: mostri di apparenza, incapaci spesso di una vera personalità o di possedere dei valori forti.

La rivoluzione di oggi banalmente consiste in questo: i "vecchi" media sono principalmente passivi e, quando non lo sono, si tratta di eccezioni che si riflettono in aristocratiche solitarie presenze o in abbondanti mediocri apparizioni.
Internet invece esprime le due possibilità in maniera quasi rovesciata e soprattutto amplificata.
E' passivo quando richiede lettura, ascolto, attenzione.
E' attivo, quando si esprime nelle chat, nei social network, nell'informazione fine a se stessa,  liberando il becero orgoglio di chi pensa di essere o è diverso dagli altri.
Per quale motivo dovrei essere interessato a leggere cosa oggi ha mangiato Tizio o peggio a quante cavolate è stato in grado di accumulare in tempo record?
Probabilmente non interessa a nessuno, ma ho sempre più la consapevolezza che solletica il vizio voyeuristico probabilmente insito in chi è incapace di vivere una vita sua propria, con una personalità o debole o egocentrica o inesistente.
Questo l'hanno capito da tempo anche i giornali o i videogiornali, non a caso pieni di cronaca e di contenuti obiettivamente insignificanti.

In un mondo incapace di identità propria, internet diventa l'ambiente migliore in cui prolifera la miseria umana e personale, in un appiattimento culturale inquietante.
Eppure quante e quali sono le sue potenzialità!!!

Recentemente Wired Italia lo ha candidamente candidato al premio Nobel per la pace.
Si, proprio internet, non una persona nè un ente ma uno strumento.
Inizialmente ho pensato fosse quantomeno ridicolo, in particolare per un bene così importante come la pace.
Poi mi sono reso conto che avevano solo sbagliato tipo di premio: doveva essere richiesto il Nobel "per lo sviluppo della società umana e degli individui".
Cosa può garantirci meglio di internet la possibilità che la comunicazione e l'interscambio delle informazioni nel mondo -qualcuno direbbe la globalizzazione- possano ottenere realmente un miglioramento di ciò che siamo in quanto individui e in quanto società, in maniera così efficace ed efficiente?
Si, non esiste un Nobel per questo.. ma bisognerebbe inventarlo.

Sono l'antiGrandeFratello per autodefinizione: non mi interessa, entro limiti ragionevoli, ciò che gli altri pensino di me, non mi interessa apparire nei media , non mi interessa scrivere un libro per vendere.
Mi da fastidio pure incrociare, seppur per pochi attimi, la vita intima o personale delle persone, non connessa con un pensiero o con un sentimento che possa essere considerato validamente umano.
E interessarmi delle storie degli altri, senz'altro scopo che la curiosità fine a se stessa, non lo è.
Odio persino che il mio indirizzo email o il mio nome appaia sul web: sono un animale raro?

Mi piace scrivere, questo da sempre. E questa passione non è sicuramente una rarità, antica quanto il mondo e che trae origine semplicemente dalla voglia di comunicare con il mondo.
La storia, non dimentichiamolo, inizia con la scrittura.
Ed inizia per una necessità oggi considerata quasi banale: far di conto.
Proprio per questo si dovrebbe scrivere solo quando si ha un bisogno, qualcosa da esprimere.
Io mi sono sempre attenuto a questa regola aurea e prevedo realisticamente di farlo anche nel futuro.
Perchè allora scrivere un blog?
Perchè adesso ho un progetto, delle idee chiare.
Mettermi in mostra non mi interessa affatto, scrivere e comunicare delle idee, si.
Non basta questo per essere qui, blogger tra blogger e...nonostante i blogger?